“Sarebbe vero dire che si è abituato alle liquidazioni?”

Pensò per un momento. “A dire il vero”, disse poi, lentamente e pensieroso, “ci si è abituati.”

“In giorni? Settimane? Mesi?”

“Mesi. Sono passati mesi prima che potessi guardare uno di loro negli occhi. Ho represso tutto cercando di creare un posto speciale: giardini, nuove caserme, nuove cucine, nuovo tutto; barbieri, sarti, calzolai, falegnami. C’erano centinaia di modi per non pensarci; li ho usati tutti.”

“Anche così, se si sentiva così forte, dovevano esserci momenti, magari di notte, al buio, in cui non poteva evitare di pensarci?”

“Alla fine, l’unico modo per affrontarlo era bere. Ogni sera mi portavo a letto un grosso bicchiere di brandy e bevevo.”

“Credo che lei stia eludendo la mia domanda.”

“No, non voglio; certo, i pensieri venivano. Ma li ho allontanati. Mi sono concentrato sul lavoro, sul lavoro e ancora sul lavoro.”

“Sarebbe vero dire che alla fine hai sentito che non erano veramente esseri umani?”

“Una volta, quando ero in viaggio, anni dopo in Brasile”, disse, il suo viso profondamente concentrato, e ovviamente rivivendo l’esperienza, “il mio treno si fermò vicino a un macello. Il bestiame nei recinti, sentendo il rumore del treno, trotterellò fino al recinto e fissò il treno. Erano molto vicini al mio finestrino, uno di fronte all’altro, e mi guardavano attraverso il recinto. Pensai allora: ‘Guarda qui, questo mi ricorda la Polonia; è proprio così che la gente guardava, fiduciosa, appena prima di entrare nelle lattine…”‘

“Hai detto lattine”, ho interrotto. “Cosa vuoi dire?” Ma lui continuò senza ascoltarmi né rispondermi.

“… Non potei più mangiare carne in scatola dopo di allora. Quei grandi occhi che mi guardavano senza sapere che in poco tempo sarebbero stati tutti

morti”. Fece una pausa. Il suo viso era tirato. In quel momento sembrava vecchio e consumato e reale.

“Quindi non li sentivi come esseri umani?”

“Carico”, disse senza tono. “Erano un carico”. Alzò e lasciò cadere la mano in un gesto di disperazione. Entrambe le voci si erano abbassate. Fu una delle poche volte in quelle settimane di colloqui che non fece alcuno sforzo per mascherare la sua disperazione, e il suo dolore senza speranza permise un momento di simpatia.

“Quando pensi che hai cominciato a pensare a loro come a un carico? Il modo in cui hai parlato prima, del giorno in cui sei arrivato per la prima volta a Treblinka, l’orrore che hai provato vedendo i corpi morti ovunque – non erano ‘carico’ per te allora, vero?”

“Penso che sia iniziato il giorno in cui ho visto per la prima volta il Totenlager a Treblinka. Ricordo Wirth in piedi lì, accanto alle fosse piene di cadaveri blu-neri. Non aveva niente a che fare con l’umanità, non poteva averlo; era una massa – una massa di carne in decomposizione. Wirth disse: ‘Cosa dobbiamo fare con questa spazzatura? Credo che inconsciamente questo mi abbia fatto pensare a loro come a un carico.”

“C’erano così tanti bambini, ti hanno mai fatto pensare ai tuoi figli, a come ti saresti sentito nella posizione di quei genitori?”

“No,” disse lentamente, “non posso dire di aver mai pensato in quel modo. Fece una pausa. “Vede”, continuò poi, parlando ancora con questa estrema serietà ed evidentemente intento a trovare una nuova verità dentro di sé, “raramente li vedevo come individui. Era sempre una massa enorme. A volte stavo sul muro e li vedevo nel tubo. Ma – come posso spiegarlo – erano nudi, ammassati insieme, correvano, venivano guidati con le fruste come…” la frase si interruppe.

“Non avresti potuto cambiare questo? Chiesi. “Nella sua posizione, non avrebbe potuto fermare la nudità, le fruste, l’orrore dei recinti per il bestiame?”

“No, no, no. Questo era il sistema. Wirth l’aveva inventato. Funzionava e siccome funzionava, era irreversibile”

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